Aggiornato il 16 novembre 2023
Quando ho visitato il museo di Yayoi Kusama a Tokyo, ho pensato che avrei dovuto scrivere un articolo su questa eccentrica artista, signora dei pois, ma anche una riflessione sullo storico pattern.
Quale migliore occasione se non l’invito di Anna Lisa a scrivere un articolo sul suo blog Parole e pois, come ospite del format Mine Vaganti.

Yayoi, sin da piccola nella sua Matsumoto in Giappone, amava immergersi nel suo mondo fatto di puntini più o meno regolari, generati dalle sue allucinazioni visive e uditive, che più tardi furono attribuite ad un importante disturbo dissociativo.
Questa ossessione per lei non è solo una esternazione emozionale, ma una vera e propria terapia, nei pois trova la soluzione per affrontare i suoi problemi, tanto da definire il suo lavoro auto-obliterazione, un gesto ripetuto all’infinito fino all’annullamento del pensiero.
Nel libro “Yayoi Kusama: From Here to Infinity” viene così raccontato il suo arrivo in America all’età di 27 anni:
“A New York, Yayoi salì in cima all’Empire State Building, l’edificio più alto in una città di edifici alti. Quando guardò giù vide autobus e automobili, taxi gialli che sfrecciavano per le strade, e banchieri ed insegnanti ed artisti che si affrettavano per andare al lavoro: lassù dall’ottantaseiesimo piano sembravano dei puntini. Yayoi iniziò a trasformare i suoi punti in veri e propri dipinti. Dipingeva quando aveva freddo, dipingeva quando aveva fame, dipingeva quando era sola.
Era fedele ai suoi punti, poiché rappresentavano un modo per pensare al mondo persa tra le stelle, come un puntino tra milioni di altri. Come un modo per pensare all’infinito.”
Anche oggi a 91 anni (è nata nel 1929) nell’ospedale psichiatrico dove ha scelto di vivere, Yayoi Kusama continua a coltivare la sua “Dot Obsession”, dipingendo e componendo poesie per lasciare al mondo un messaggio di speranza e pace.

Facciamo il punto. (Pois nella moda)
Quelli di Kusama finiscono anche in una edizione limitata di borse di Louis Vuitton. È impossibile infatti raccontare dei pois senza coinvolgere la moda. La parola pois compare per la prima volta in stampa nel 1857 sulla rivista Godey’s Lady’s Book, per descrivere il tessuto di una sciarpa “circondata da un bordo smerlato, ricamato in file di pois rotondi”.
Prima dell’800 non esistevano macchinari capaci di stampare tessuto con punti equidistanti su larga scala, dunque i puntini disegnati risultavano irregolari ed erano considerati cattivo augurio anche perché ricordavano le macchie che sporcavano i vestiti dei malati.
I pois stampati diventano molto in voga in America negli anni ‘30, dove vengono chiamati polka dot (dal popolare ballo polacco, probabilmente perché i puntini di diverso colore indicavano le varie scuole di ballo). Qui, oltreoceano, vengono ritenuti adatti ai bambini per la loro semplicità e “salubre vivacità”, usata per culle, lenzuola, giocattoli.
Forse proprio per questo motivo questa fantasia è stata scelta da Walt Disney per decorare l’abito di Minnie Mouse, la perenne fidanzata di Topolino, con l’iconica gonna rossa a pallini bianchi.
Più tardi conquistano anche lo stile di Christian Dior, che dichiara a Vogue che la sua ormai storica collezione decorata coi i pois cercava di “rendere le donne stravaganti, romantiche e femminili”.
Stravagante, come la “zebra a pois“, cantata da Mina nel 1960 per mostrare la sua versatilità, una trasgressione che le permette di allontanarsi dai canoni sanremesi nei quali non si riconosce.

Mettiamo i puntini sulle i. (Una questione di identità)
Oggi, i pois evocano uno stile retrò, ci fanno pensare agli anni ’50 quando dilagavano su accessori e tessuti. Il loro carattere eccentrico, pop e spiritoso, ma al tempo stesso geometrico regolare e misurato, può diventare un potente simbolo di identità.
Proprio qui volevo arrivare. Quando pensi all’identità, pensi agli attributi che rendono qualcuno la persona che sono e la rendono unica.
Per un brand, qualsiasi brand, è fondamentale avere una identità definita attraverso degli elementi visivi distintivi capaci di renderci ricordabili, riconoscibili e differenziarci dagli altri, come colori, caratteri, motivi ricorrenti, ripetuti ossessivamente proprio come un infinito pattern a pois.
Pensiamo al rosso della Ferrari, alla forma della bottiglia della Coca Cola, questi non sono elementi che fanno parte del logo, ma come e più di questo ci riportano un brand alla mente.
La progettazione dell’identità visiva del marchio viene eseguita sviluppando un messaggio che rende il brand unico e riconoscibile attraverso lo studio dello stile, della palette di colori, dei caratteri tipografici e dei segni grafici distintivi da utilizzare in tutta la comunicazione.
Punto.
Se la tua identità fosse un elemento visibile, cosa sarebbe?
Il mio sicuramente il colore rosa!
